Menu
Gravidanza & co.

A parte che sono c@@@i miei: domande indiscrete da non fare a una giovane donna

“Non sei madre? Non puoi capire”.


Questa è una delle tante frasi che nella prima parte della mia vita mi sono sentita dire quando mi rapportavo con amiche o parenti che si dividevano tra lavoro, casa e, soprattutto, figli.
La mia sofferenza nel non riuscire a diventare madre si scontrava spesso con frasi che creavano una sorta di muro tra me e il mondo e che mi isolavano sempre di più, generando in me la convinzione di essere sbagliata.

Già ad un mese dal mio matrimonio la domanda di rito era: “a quando un bambino?”. Frase che nel tempo si è poi trasformata in: “ancora niente figli?” Il mio imbarazzo non veniva mai percepito all’esterno e le domande arrivavano insistenti, da più parti, a voler scrutare la mia vita nella sua sfera più intima.

Una donna deve essere madre e con i tempi dettati dalla società: né troppo presto, perché deve prima realizzarsi dal punto di vista professionale, né troppo tardi, perché c’è una scadenza biologica che detta i ritmi ricordandoti, ad ogni ciclo, che stai perdendo tempo prezioso.

Da quando si è madri, dunque?
Credo di esserlo sempre stata, anche prima di mettere in cantiere l’idea di esserlo realmente.
Ero madre quando mi prendevo cura dei bimbi in ospedale come volontaria, ero madre quando accarezzavo l’idea di un figlio tutto mio ma anche quando progettavo di adottarne uno, e persino quando non pensavo affatto ad avere un figlio perché mi vedevo in Africa a realizzare pozzi e condutture (il mio sogno da ragazza) circondata da meravigliosi bambini sorridenti. Eppure attorno a me c’era sempre chi mi chiedeva di più o comunque qualcosa di diverso da quello che era il mio progetto di vita, ignorando le mie sofferenze o le mie esigenze e facendomi sentire inadeguata.
Quando sono rimasta incinta naturalmente del mio primo figlio, nonostante i pareri contrari dei medici e dopo aver rinunciato ad un percorso verso la procreazione assistita, che per me era doloroso e nel quale non mi sentivo “a mio agio”, credevo di aver raggiunto l’apice della felicità.

Il sogno si è infranto dopo soli tre mesi, il giorno del mio trentesimo compleanno. Neppure questo dolore ha fermato la curiosità di chi mi circondava e ammetto di aver provato sentimenti che non mi appartenevano: invidia per le pance, persino quelle dei manichini premaman, e rabbia nei confronti di chiunque provasse ad interferire nel mio mondo. “Non viverla come un lutto, ne puoi fare un altro”: c’è sempre chi ha la soluzione ai tuoi problemi o che sottovaluta ciò che provi e che si sente in dovere di dire la sua e di farlo nel peggiore dei modi.

Mi sono chiusa in me stessa e ho cercato di capire come riprendere in mano la mia vita e soprattutto come riempire il vuoto di un figlio che ho visto crescere solo nei miei sogni.
Ho fatto luce su me stessa ma anche chiarezza con chi mi circondava, respingendo inutili curiosità e allontanando da me quanto mi creava disagio. La mia prima figlia arcobaleno è nata dopo quasi due anni da quel grande dolore, ma le domande scomode così come le interferenze sulla mia vita sono riprese subito: “allatti ancora? ma è grande!”, ” a quando un fratellino?”, “e il lavoro? devi realizzarti!”, “dopo il secondo però basta!”…

Non ho mai percepito tutto questo come vera intromissione nella mia vita, ma certe affermazioni o domande mi hanno ugualmente messa in discussione più di quanto non facessi già con me stessa. Ci sono momenti della vita in cui si è più fragili e non si riesce ad essere indifferenti alle pressioni di chi anche senza malizia sfonda una porta che non andrebbe aperta neppure con delicatezza. Nessuno può decidere i nostri tempi e i nostri percorsi, né arrogarsi il diritto di dare consigli non richiesti, ma soprattutto di farci sentire inadeguate creando ferite profonde nell’anima!